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sabato 6 settembre 2014

Il Museo della Carta di Amalfi

Il Museo della Carta di Amalfi è un'ex-cartiera trasformata in museo nel 1969 per volere di Nicola Milano, 
proprietario della cartiera ed appartenente ad una delle famiglie amalfitane famose per essere state operanti 

nella produzione e fabbricazione della carta di Amalfi (o carta bambagina).




Il museo, situato nella Valle dei Mulini, nella parte interna della città, ospita i macchinari e le attrezzature 
(opportunamente restaurati e perfettamente funzionanti) impiegati nell'antica cartiera per realizzare la carta a 
mano. Al primo piano sono stati allestiti, inoltre, un'esposizione di fotografie e stampe documentaristiche e 
una biblioteca a tema contenente libri sulle tecniche di produzione, a testimonianza dell'importanza assunta 
da questo manufatto nella storia della repubblica marinara.


I cenci che s’impiegavano nella fabbricazione della carta a mano potevano essere di lino, di cotone di canapa, di iuta: esclusi quelli di origine animale, e di seta, sia per la rigidezza delle loro fibre, che mal si prestava a far carta, sia perché nell’operazione di lisciviazione si alteravano e distruggevano.

I magli di legno che battevano e trituravano gli stracci precedentemente raccolti

Gli stracci avendo le fibre pressoché libere da incrostazioni, la loro trasformazione in pasta non richiedeva che una pulitura e una distruzione del tessuto per isolarne le fibre. Nella trasformazione dei cenci in carta la prima operazione che veniva svolta era la loro pulizia a cui seguiva la tagliatura a mano e nello stesso tempo la separazione da rattoppi, cuciture, orli, bottoni, tutte quelle parti rigide e dure che potevano danneggiare oltre che il prodotto anche le macchine.



Lo scopo era di liberare gli stracci dalle impurità come le sostanze grasse che non si potevano allontanare diversamente. Compiuta la lisciviazione si procedeva alla lavatura degli stessi per liberarli dal liscivio e dalle altre impurità che non si fossero ancora allontanate. A questo lavaggio seguiva la sfilacciatura la cui funzione era di distruggere ogni traccia di tessuto senza però che i filamenti venissero tagliati. Questo trattamento serviva da preparazione ad un altro lavoro, la raffinazione nella quale questi filamenti erano a loro volta ridotti in fibre atte a far carta. La massa filamentosa che si otteneva con la sfilacciatura si chiamava sfilacciato o mezza pasta, in contrapposto alla tutta pasta che si otteneva con la raffinazione che avveniva grazie ad enormi magli in legno che battevano e trituravano gli stracci precedentemente raccolti in pile in pietra.

Lidia si cimenta nella produzione di un foglio di carta a mano


L’impasto ottenuto diluito con acqua era pronto per la lavorazione.La tutta pasta veniva prelevata con appositi attingitoi in legno e immersa nel Tino (vasca rivestita internamente di maioliche). Il cartaro immergeva nel tino un telaio il cui fondo formato da una rete metallica a maglie strette raccoglieva una quantità di pasta, distribuendola in una forma; colata l’acqua restava un sottile strato di materiale.












Il foglio di carta veniva poi riposto su un feltro di lana detto pontone e ricoperto a sua volta da un altro feltro. I fogli venivano poi accatastati insieme e sottoposti ad una pressa per l’eliminazione dell’acqua residua. Ultima fase di lavorazione della carta consisteva nel portare la carta ad asciugare in appositi spanditoi.












la pressa per l'eliminazione dell'acqua













La pila a magli in cui gran parte della lavorazione era ancora artigianale, fu sostituita dalla macchina olandese istallata nella cartiera Milano il 18 novembre 1745, come risulta dalla data graffita sulla parete e nella quale oltre alla raffinazione si svolgeva anche la lavatura e la sfilacciatura dei cenci. La pila olandese, era un macchinario costituito da una vasca di pietra e di cemento di forma oblunga.Una parete mediana divideva la vasca in due canali comunicanti fra loro: in quello che di solito si teneva più largo, e che si chiamava canale di lavoro, ruotava un cilindro fornito alla superficie di lame disposte secondo le generatrici del cilindro stesso. Sul fondo a pendio si trovava la platina, un sistema di coltelli tenuti insieme da viti e separati fra loro da sottili pareti in legno in modo che pur consumandosi rimanevano sempre sporgenti. La platina era fissata in una cassetta di ghisa che veniva introdotta nell’olandese, sotto il cilindro, attraverso una apertura praticata lateralmente alla macchina stessa e poteva essere perfettamente richiusa.

Il fiume, le cui acque alimentavano le macchine per la produzione




Le informazioni pubblicate in queste pagine

sono estratte dal libro "Sulle orme della carta" di Angelo Tajani.



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